Sentirsi bloccati: come l’incontro tra i sistemi può generare e sciogliere i blocchi evolutivi

di Anna Gigliarano

Questo articolo fa parte de Il Corsivo del Secondo Venerdì, la rivista di Teorie e Pratiche Psicoterapeutiche del Centro Panta Rei, e nasce dall’intervento tenuto dall’autrice Anna Gigliarano alla conferenza Le emozioni in terapia tenutasi il 15 Dicembre 2021 in occasione dell’inaugurazione dell’A.A. della Scuola di Psicoterapia del Centro Panta Rei. Il Corsivo del Secondo Venerdì è acquistabile in sede oppure sul sito web della Libreria Aleph.

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Introduzione

Nella mia pratica clinica, sto ritenendo sempre più prezioso l’utilizzo della supervisione non soltanto per esplorare nuove mappe cliniche a cui fare riferimento, ma soprattutto per comprendere il mio modo di funzionare in terapia, per trovare il mio stile e riconoscere che, in primis, la terapia è fatta dalla relazione terapeutica. Il primo strumento che un terapeuta ha a disposizione è se stesso e, di conseguenza, deve imparare a conoscersi, partendo dalle sue emozioni e dai suoi pregiudizi, perché essi sono il suo “sintomo” per capire cosa sta co-costruendo (Cecchin, 1997).

Quando ci si sente bloccati, si attivano una serie di emozioni quali impotenza, frustrazione, noia, paura, fastidio, tristezza (Bertraldo, 2014). Questi vissuti possono portare pazienti in terapia e terapeuti in supervisione. Dare spazio e senso a queste sensazioni vuol dire fermarsi ad osservare cosa sta accadendo dentro e tra i sistemi in gioco, al fine di far emergere ciò che altrimenti agirebbe inconsapevolmente, creando appunto dei blocchi nel processo evolutivo.

Per comprendere l’organizzazione relazionale fonte di disagio è importante analizzare le interazioni sistema osservato-osservatore (Malagoli Togliatti et.al., 1991).

Se facciamo riferimento all’epistemologia sistemica, possiamo descrivere l’incontro tra paziente e terapeuta come un incontro di sistemi che, a loro volta, generano un terzo sistema a sé stante, quello della terapia. I vari sistemi sono interconnessi tra loro e questo produce delle influenze reciproche a vari livelli che possono generare cambiamenti o, appunto, blocchi. Tali interconnessioni (chiamati da Elkaim assemblaggi di singolarità) possono riguardare contenuti come la storia personale (si creano così risonanze tra il vissuto del paziente è quello del terapeuta), o elementi del non verbale, posture, tono della voce, riferimenti culturali, significati, ecc.

È dall’amplificazione di questi assemblaggi che si determina l’evoluzione o lo stallo dell’interazione ed è qui che bisogna prestare attenzione per generare cambiamento.

“Ciò che conta non è il territorio ma l’intersezione tra le mappe del terapeuta e quelle del paziente: è proprio a questa intersezione che si colloca il terapeuta.” (Elkaim, 1992)

Il terapeuta, quindi, entra in modo attivo nel sistema-terapia, portando le sue mappe, le sue premesse, i suoi vissuti e collegandoli a quelli del paziente.

L’ascolto di come stiamo in seduta può aiutarci a porre attenzione al contributo che stiamo dando al sistema-terapia, soprattutto alle nostre cecità (Telfener, 2011), cioè a quello che non sappiamo di mettere in campo (nostri pregiudizi, cosa non vediamo, risonanze, modalità di rapporto, sentimenti, simpatie, antipatie, preferenze ecc.). La supervisione funziona quindi come altravisione, cioè come strategia per cambiare posizionamento (es. diventando osservatore di ciò che accade tra sistemi) e, di conseguenza, introdurre nuove visioni.

“Come la curiosità, l’altravisione ci aiuta a cercare differenti spiegazioni e descrizioni quando non ce ne sembrano possibile diverse, ma come l’ipotizzazione diventa la tecnica che ci aiuta a mantenere una posizione curiosa” (Caruso, 2002).

In generale, l’autoriflessività, cioè la capacità di riflettere su ciò che accade per svelare la circolarità costitutiva tra presupposti e azioni, diventa uno strumento indispensabile per il terapeuta sistemico. “L’autoriflessività non riguarda solo il pensiero formale o il linguaggio tecnico dei terapisti. L’attenzione non è cioè rivolta soltanto ai sistemi di riferimento teorici “ufficiali” ma anche ai pregiudizi e alle emozioni, alle idee o teorie implicite dei terapisti” (Fruggeri, 1998)

Di seguito, presenterò tre storie di terapia sistemica individuale con giovani adulti in cui è stato vissuta una sensazione di blocco nel processo terapeutico. Mostrerò come l’autoriflessività e l’altravisione hanno permesso di leggere ciò che stava accadendo nei due sistemi individuali (del terapeuta e del paziente) e nel sistema-terapia, facendo emergere le interconnessioni che stavano rinforzando le convinzioni profonde e, di conseguenza, generando novità.

Primo caso, omeostasi del sistema-terapia

E., un ragazzo di 32 anni, mi contatta perché da un po’ di tempo l’ansia e lo stress che vive sul posto di lavoro sta diventando ingestibile, tanto da trasformarsi in frequente irritabilità nella relazione di coppia. Mi racconta di passare gran parte del suo tempo in ufficio, anche 12 ore al giorno, ma ultimamente il carico di responsabilità sta diventando troppo pesante per lui, tanto da pensare di voler cambiare lavoro, ma l’idea lo manda in crisi perché non si immagina in nessun’altra alternativa. E. si mostra da subito accondiscendente e gentile nella relazione terapeutica, mostrando la sua ansia quando gli si chiede di parlare di sé, non soltanto in termini emotivi e corporei, ma anche come narrazioni di eventi accaduti. Apertamente dichiara di non essere propenso a un ragionamento introspettivo, perché non abituato a pensare a sé. Spontaneamente, agisco ponendomi in modalità complementare con lui, iperattivandomi per compensare i vuoti che lui mi offriva. Ben presto, però inizia ad emergere il mio sintomo: mi sento scomoda in questa terapia. Un misto di noia, frustrazione, impotenza, irritazione, inadeguatezza mi fa pensare che il sistema terapeutico sia diventato omeostatico, non portando più novità.

Decido quindi di attivare una supervisione per osservare cosa sta accadendo nel sistema-terapia e quali interconnessioni si sono amplificate.

Iniziamo ad osservare cosa si sta muovendo nel sistema-terapeuta e riportiamo i miei vissuti ai temi chiave del potere e della responsabilità (Boscolo e Bertrando, 1996): avevo perso la curiosità, pensando di aver capito cosa bisognasse fare. Per di più, concentrata sul mio obiettivo e occupata con le mie reazioni emotive, non mi ero accorta che i suoi blandi rifiuti alle mie proposte erano delle interessanti informazioni sul suo funzionamento.

Decidiamo quindi di riferire i miei vissuti al sistema-terapia, per cercare di comprendere che dinamiche si stavano creando: come ci stiamo posizionando? Quali ruoli stiamo assumendo? Quali linguaggi stiamo utilizzando? (Harrè, 2004)

E. si era dichiarato “incapace di fare queste cose”, riferendosi a tutto ciò che potesse riguardare uno sguardo autoriflessivo. Io, da “esperta”, mi ero posta allora come guida, rinforzando, di fatto, la sua posizione.

Se il contesto di terapia riorganizza lo stesso clima emotivo che viene vissuto nei sistemi familiari (Telfener lo chiama effetto frattale), quello che stava accadendo nel nostro sistema-terapia poteva essere informativo sul funzionamento di E. all’interno dei suoi sistemi significativi. Il giovane si descrive come una persona incapace di fare scelte, che si adatta a tutto e a cui va bene tutto, non consapevole di quali possano essere i suoi gusti e le sue idee, dedito al lavoro, abitudinario e poco propenso al cambiamento. Richiede, in ogni suo contesto, di avere una guida, una persona più esperta che possa scegliere per lui. Velatamente, nelle sue narrazioni e nelle azioni in terapia, appare anche una parte ribelle, che protesta, si oppone, prova fastidio… ma allo stesso tempo prende una posizione.

Far emergere questa parte, ridefinendo il “sintomo” del terapeuta in chiave relazionale e dando spazio nel linguaggio a una nuova narrazione di sé (Cecchin, 1994), ha permesso al terapeuta di introdurre nuove strategie terapeutiche che hanno generato novità e rimesso in movimento il processo.

In questo caso, quindi, la sensazione di blocco percepita dal terapeuta è stata riferita al sistema- terapia ed è stata utile per comprendere quali posizionamenti, tipici del linguaggio del paziente, si stavano riproponendo, rischiando di diventare omeostatici.

L’introduzione dell’altravisione, attraverso il contesto della supervisione, ha permesso di generare autoriflessività nel sistema-terapeuta, per far emergere ciò che stava accadendo tra i sistemi, e quindi introdurre nuovi significati, nuovi linguaggi e nuovi posizionamenti.

Secondo caso: blocco come sintomo

A. è una ragazza di 21 anni che richiede una psicoterapia perché si sente bloccata nel suo percorso universitario e lavorativo.

Il terapeuta introduce il suo sguardo sulla storia della paziente attraverso le mappe cliniche che sceglie di utilizzare, che determinano punteggiature utili a creare delle ipotesi (Caruso). Utilizzando la diagnosi relazionale, posiziono il sintomo all’interno della dimensione temporale del sistema famiglia. Utilizzo inoltre la mappa clinica del giovane adulto (secondo cui il compito evolutivo è il processo di separazione-individuazione e lo stallo avviene nella fase dello svincolo, Malagoli Togliatti et. al. 2002) e individuo nella separazione dei genitori un blocco traumatico. Con questa lettura, il sintomo portato dalla paziente (T2) può essere letto come tentativo di soluzione (T1) di un problema antecedente (T0).

Nello specifico, la non elaborazione della separazione dei genitori qualche anno prima aveva portato la ragazza a “sacrificare” il suo percorso individuale per tenere insieme la famiglia che si stava disgregando, sostituendosi ai ruoli che venivano lasciati vuoti nelle varie relazioni tra i membri della famiglia, sentendosi così brava, forte, capace e vista. Tale soluzione, però, è andata in crisi quando sono emerse informazioni che hanno rinforzato il suo vissuto, tenuto latente, di solitudine, incapacità, inferiorità.

La narrazione che avevamo costruito rispetto alla sua storia ci piaceva così tanto che stava diventando quasi “perfetta” (Cecchin e Apolloni 2004), rischiando quindi di non introdurre più novità. In questo caso, l’autoriflessività del terapeuta ha permesso di far emergere le cecità (posizione “non so di non sapere”, Telfener, 2011) che avrebbero rischiato di rinforzare assemblaggi impliciti, confermando convinzioni profonde che non avrebbero portato novità (Elkaim, 1992).

Telfener sostiene che la cecità è ineludibile, quindi dobbiamo sempre sapere di doverci fare i conti. Per questo è importante da terapeuti porsi continuamente domande quali: “in cosa ho colluso oggi?”, “quali sensazioni e percezioni sto provando nella relazione con il paziente?”, “cosa dicono di me, del mio funzionamento, delle mie difficoltà?”.

Queste riflessioni hanno permesso di far emergere un funzionamento simile tra me e la paziente: entrambe cercavamo di tenere a bada delle emozioni scomode attraverso la razionalizzazione, anche se esse venivano fuori attraverso altri linguaggi (ad esempio, con il corpo).

Decido, quindi, di introdurre cambiamenti nel registro linguistico utilizzato in terapia, dedicando spazio al non verbale e al corporeo, sentendoci entrambe un po’ meno comode, ma al fine di mantenere la terapeuticità del sistema-terapia.

Terzo caso: quando il blocco si sblocca

In quest’ultimo caso, vorrei presentare un momento specifico della terapia, durante il quale il blocco della paziente all’interno del sistema-terapia, letto come reazione a una perturbazione del terapeuta, ha generato uno sblocco nel processo e un passo evolutivo nel suo sistema personale, permettendole di riposizionarsi rispetto alla famiglia di origine.

E. è una ragazza di 19 anni, che mi (ri)contatta per lavorare sulla sua ansia sociale e sulla sua autostima. Aveva già fatto un percorso quando aveva 9 anni su richiesta dei genitori perché doveva “diventare più sicura di sé, più socievole, più estroversa”.

Seppure questa volta esplicita che la richiesta parta da lei, si ritrova bloccata in una definizione di sé decisa dagli altri, combattuta tra un sé ideale fortemente desiderato soprattutto dai genitori, che comprende solo i successi, e un sé reale insoddisfacente, alla ricerca di una conferma dall’esterno e uno sguardo di approvazione, che si sente non abbastanza. Il messaggio che le arriva dall’esterno è ambivalente: da una parte deve essere sicura di sè e autonoma, dall’altra parte quando esprime il suo parere viene messo in dubbio, sminuito, criticato. Lei stessa è incastrata in una dichiarata autonomia e compiutezza che cela una forte dipendenza dall’esterno, di cui sente di avere bisogno ma allo stesso tempo che viene vissuto come vincolante e limitante.

Per perturbare questo circolo vizioso che ultimamente riporta come costante in terapia, attraverso una continua lamentela su quanto gli altri non gli permettano di essere ciò che vuole e non credano nella sua capacità, le propongo, strategicamente (K. Tomm, 1990), di cambiare sguardo e di fare un lavoro di rinforzo di sé e delle sue capacità (Albero della vita di David Danberough).

La volta successiva, e per qualche settimana, la paziente salta gli incontri, annullandoli all’ultimo minuto. Ipotizzo che questo comportamento possa essere una reazione a ciò che è accaduto in terapia. Quando ritorna, decido di condividere con lei ciò che ho osservato, per attivare una riflessività sul qui e ora del sistema-terapia e un’autoriflessività nella paziente. Utilizziamo una parola introdotta dalla paziente, “caos”, come parola chiave per ridefinire ciò che sta accadendo nel processo terapeutico e nel suo percorso di vita.

“Le parole chiave hanno una grande potenzialità di ridefinizione. Esse possono inserirsi nelle mappe dei clienti, nelle loro storie, introducendo un alto grado di disordine, dal quale può originarsi una riorganizzazione, cioè un cambiamento” (Boscolo et.al. 1991).

Posizionandoci come osservatori di ciò che sta accadendo, introduciamo altrevisioni sulle premesse implicite che guidavano la paziente, facendo emergere i doppi legami dentro cui era incastrata. Uno sguardo riflessivo le ha permesso di mettere in evidenza le circolarità percezioni-interpretazioni- azioni autoconfermanti, permettendole di posizionarsi in modo nuovo rispetto a tali narrazioni e, quindi, introducendo novità (Fruggeri, 2004), prima di tutto nel suo sguardo.

Conclusioni

La terapia può essere quindi vista come un incontro di sistemi che generano un terzo sistema e si influenzano a vicenda, con le loro premesse e intenzionalità, co-costruendo nuove narrazioni (ma anche rischiando di confermare convinzioni profonde).

Sentirsi bloccati in terapia è un vissuto che comunica ciò che sta accadendo in un sistema e tra i sistemi. In terapia è frutto delle interconnessioni tra sistemi.

L’altravisione è una linea guida per il lavoro clinico che aiuta a osservare da un altro punto di vista cosa accade dentro i sistemi e tra i sistemi, utile per sviluppare l’autoriflessività, intesa come strategia per esplicitare la circolarità tra percezioni – premesse – azioni e riconoscere gli assemblaggi che possono bloccare o portare cambiamento.

di Anna Gigliarano

Psicologa e psicoterapeuta laureata in Psicologia dello Sviluppo e della Comunicazione presso l’Università Cattolica di Milano. Dopo l’esame di Stato e l’iscrizione all’albo degli Psicologi della Lombardia, ha avviato la la professione clinica in collaborazione con altri professionisti, offrendo percorsi di sostegno psicologico, inizialmente indirizzati a bambini e adolescenti e successivamente anche per adulti. Ha partecipato al Master di I livello in Psicodiagnosi presso l’ASP di Milano e nel 2012 è stata allieva della Scuola di Psicoterapia del Centro Panta Rei. Nel 2018 ha aperto il suo studio privato di psicologia e psicoterapia a Saronno.

Questo articolo fa parte de Il Corsivo del Secondo Venerdì, la rivista di teorie e pratiche psicoterapeutiche del Centro Panta Rei.